Presentazione del libro "Uomini e caporali" di Alessandro Leogrande

Liceo Statale "Archita" - Taranto

Venerdì 27 febbraio 2009 - ore 10.30

Presenta: Roberto Nistri

Segue sintesi fatta dalla prof.ssa Francesca Poretti

Al Liceo “Archita”: il prof. Roberto Nistri presenta il libro di A. Leogrande, Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud.

Qualche giorno fa un ex-alunno del Liceo “Archita”, Alessandro Leogrande, ormai famoso giornalista e scrittore impegnato, ha incontrato gli studenti dell’Istituto per parlare con loro del suo ultimo libro, Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, edito dalla Mondadori.

A presentare l’autore e il libro è stato invitato il prof. Roberto Nistri, ex-docente di Storia e Filosofia del Liceo, che in un discorso molto chiaro ed efficace ha illustrato il percorso culturale fatto dal giovane autore tarantino e gli aspetti salienti del suo libro. Sin da studente, ha affermato il relatore, Leogrande ha mostrato il suo desiderio di percorrere sentieri nuovi, anteponendo al suo dovere di studente, che pure svolgeva in maniera brillante, la sua curiosità per i problemi dell’attualità, in particolare quelli sociali, di cui ricercava le cause politiche ed economiche. Della società lo interessavano - e continuano ad interessarlo, come dimostra il problema affrontato nel suo ultimo libro - le fasce deboli, gli emarginati, gli sfruttati, gli oppressi, gli “stranieri” (a Roma, dove attualmente vive, tra le sue prime iniziative culturali Leogrande ha fondato la rivista “Lo straniero”, perché, sottolinea Nistri, quella dello straniero è la “categoria esistenziale” del nostro autore); egli è “uomo dell’attualità, ma ha la passione per la storia, per il passato prossimo e remoto”; nel suo libro i fatti di oggi (la storia dei braccianti agricoli polacchi trattati come schiavi da caporali anche loro polacchi) si mescolano a quelli di ieri (le lotte dei contadini nel biennio rosso in Puglia, culminate nella strage del luglio 1920 a Marzagaglia, nel territorio tra Castellaneta e Gioia del Colle). Il pregio principale della scrittura di Leogrande, secondo Nistri, è la volontà di “parlare chiaro” - gli stessi sottotitoli aggiunti ai titoli (per es. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud) dimostrano questo suo intento – un “parlar chiaro” che al relatore ricorda la maniera di scrivere di Primo Levi, in uno stile asciutto, senza indulgere alla facile retorica. Ma come “cartografo di sentieri oscuri” - così lo ha definito Nistri – ha privilegiato sempre nella sua ricerca argomenti sì di attualità ma poco trattati dai media, come ad esempio la civiltà dell’industria mangiauomini nel primo dei suoi libri, Un mare nascosto o il contrabbando tra i Balcani e la Puglia ne Le malevite o il regno del cemento ne Il paese dei viceré, fino al “regno dei pomodori” in quest’ultimo libro. E’ quanto l’autore stesso scrive, a pag. 247: “Appurare come sono andate le cose. Questo era l’obiettivo. Questo è sempre stato l’obiettivo… Restaurare la memoria …” Ovviamente, nel racconto, lui sta dalla parte delle vittime, dei morti, in particolare, di quei morti “che nessun libro di storia, nessun articolo di cronaca ha mai menzionato, …(quelli) che nessuno ricorda …” (sono parole dell’autore). La sua operazione è quindi quella di riportare alla luce, di far conoscere una sorta di microstoria, perché, senza di questa, la grande storia non esisterebbe, come hanno insegnato storici, filosofi, letterati. A proposito della scrittura, che è una bella scrittura, si tratta, nota Nistri, di una “scrittura drammatica”, che ben si adatta ad un’opera che non è un saggio e non è un romanzo, ma, piuttosto, un “saggio raccontato”, che intende illustrare la “gigantesca rivoluzione antropologica” creatasi nel mondo contadino, la sostituzione, cioè, di un nuovo caporalato, fatto di stranieri, per lo più polacchi, a quello classico italiano. Il dramma è proprio questo: i caporali, cioè, quelli che assoldano i braccianti per il lavoro stagionale nei campi (nel caso di questo libro la raccolta dei pomodori) sono anch’essi stranieri come i braccianti, e li trattano con crudeltà spesso gratuita.

L’autore, prendendo la parola, ripercorre le varie tappe che lo hanno portato a scrivere il libro: la prima sollecitazione gli venne dalla lettura dell’articolo dell’unica giornalista, una polacca, che, dopo il blitz dei Carabinieri al casolare chiamato Paradise, situato vicino ad Orta Nova (Foggia), casolare vicinissimo alla strada (strano che nessuno sapesse niente di quel che vi accadeva), riportò la notizia di braccianti polacchi trattati come schiavi da caporali polacchi per conto di imprenditori italiani; nello stesso articolo si parlava dell’impossibilità per questi braccianti di scappare, della morte che toccava a chi protestava, ed anche della sparizione di molti, ma, soprattutto, per la prima volta si parlava di braccianti ridotti in schiavitù. Dopo un primo contatto con questa giornalista, Leogrande, grazie anche a lei, ha contattato persone in Italia e in Polonia, ha parlato con i pm della Direzione distrettuale Antimafia, con gli studenti Kuba e Marco, che hanno avuto il coraggio di scappare dal Paradise e di denunciare le condizioni di stenti in cui vivevano insieme agli altri braccianti (senza la loro denuncia, non ci sarebbe stato il blitz dei Carabinieri né l’inchiesta della magistratura né infine il processo contro i caporali che ha portato alla condanna di sette di loro per il reato di “riduzione in schiavitù”, in base all’art. 600 del Codice penale). Attraverso numerosi colloqui e sopralluoghi Leogrande ha potuto raccontare questa nuova realtà del mondo lavorativo nelle campagne, dominato da brutalità, violenza, efferatezza, destinato a rimanere sconosciuto, se qualcuno dei maltrattati non fosse riuscito a fuggire, come è capitato ai tre studenti polacchi. Venuto a conoscenza di tale dura realtà, Leogrande non poteva non scrivere questo libro, non poteva lasciare ancora una volta nell’oblio tutti coloro che hanno sofferto fino a perdere la vita. Glielo ha insegnato il filosofo tedesco Benjamin, che teorizzò che le lotte, le rivoluzioni non si fanno solo per i vivi, ma anche per i vinti di ieri, per questo bisogna dare loro un nome, riportarli alla storia. Ma, come mai tanta efferatezza, tanta crudeltà oggi nel mondo del lavoro agricolo? Questo è l’inquietante interrogativo che sgomenta l’autore. Dopo i campi di concentramento, dopo i massacri, le stragi, le guerre, ancora l’uomo ripete gli stessi orrori? E’ evidente, conclude l’autore, che qui non si tratta di ragioni puramente economiche, ma ci sono ragioni sociologiche e psicologiche che spingono l’uomo al male. “Il compito di oggi è quello di capire”, scrive Leogrande. “Capire che il passato e il presente sono legati a filo doppio; che il passato ha fatto irruzione nel presente, anzi, in verità, non ha mai lasciato il campo”. E allora bisogna ricordare i fatti di ieri, perché “la memoria è l’unica arma che permette di comprendere la natura di questa violenza, di individuarne la dinamica nel presente alla luce di quanto è avvenuto nel passato”.

L’autore ha, infine, risposto ad alcune interessanti domande degli studenti, che hanno mostrato curiosità per le storie raccontate nel libro e soprattutto per l’impegno politico-sociale del giovanissimo scrittore.

Francesca Poretti

(articolo pubblicato sul Corriere del Giorno - 5 marzo 2009)




Ieri sera si è tenuto l'incontro organizzato dal Liceo "Archita" e dalla Associazione Italiana di Cultura Classica per la presentazione del libro di Tommaso Anzoino, LI'.
Relatori: Adolfo Mele e Giancarlo Magno






Di seguito l'intervento del prof. A. Mele

Di Tommaso Anzoino

Impressioni di lettura.

Sono, ero (direbbe Anzoino), un professore di Latino e Greco, un po’ cartesiano, del chiaro e distinto, amo la lettura, e mi sono con curiositas, aspettando il Lector, laetaberis di Apuleio, accinto alla lettura del suo nuovo romanzo: “Lì” appunto.

L’ho letto. Non una volta sola. E’ scorrevole, ma non di immediata comprensione-

In tutto il testo c’è una girandola di dittici, indefiniti, di pronomi, di tempi, un succedersi in libertà, almeno apparente, di associazioni di idee, immagini, suggestioni, che alla fine risucchiano il lettore nel loro vortice caleidoscopico, una serie notevole di allegorie, un mondo onirico, cui dà ordine solo la ricorrente insistenza sulle posizioni, fisiche, del narratore (dei narratori). E’ autobiografico? Forse. Ma c’è di tutto. Problemi ambientali, ricordi infantili, ricordi di ogni tipo: sogni, letture, ascolti, viaggi, studi, esperienze, giochi, film visti, persone e animali frequentati; e ci sono note di politica, poche, riflessioni morali, confessioni e suggerimenti di didattica, spunti di comprensione della realtà del mondo dell’infanzia, e soprattutto, secondo me (che al Preside non piace) un senso del mistero, del rinvio ad altro, e una grande nostalgia, che è insieme un’ immanenza del passato nel presente e nel futuro un senso sereno di morte, e progetti di vita e di scrittura nuovi: alcuni esempi degli ultimi: una antologia di Spoon River nuova, una Nova Medea, tragedia di una maga buona, le memorie di un becchino che parla con le bare, una saga familiare con ricerche storiche preliminari.

E tante citazioni, mai gratuite: punteggiano il discorso ma sono più incontri, allusioni, riprese, immedesimazioni, modi di essere, come dice Anzoino ed anche Saramago, rinviano e richiamano tutto un contesto, tutta una sensibilità, valgono una lunga digressione esplicativa: ci sono gli amati italiani, Dante, Foscolo, Leopardi, Pascoli, gli Americani del Nord e i suoi cari ed amati latinoamericani, i greci, tra cui su tutti Leonida di Taranto, i latini, e Agostino e i neogreci, Kavafis e i suoi barbari fra gli altri e gli Italiani recenti Pasolini, Ginzburg, con ricordi autobiografici forse.

Il tutto è narrato in un italiano sorvegliato e veloce, che utilizza diversi registri, dal pacato, predominante, al triviale, a tratti, sempre pronto a nascondersi dietro un pudico velo di autoironia, o in una rapida digressione: uno scritto che ricorda le aeree geometrie del volo di una mosca, che unisce punti inconsueti, o del saltare di una cavalletta, che si ferma quanto e dove crede sia importante: in ciò ricorda Seneca e la sua prosa suggestiva e a strappi.

Ma forse c’è anche il vento che scombinava le foglie nell’antro della Sibilla e rendeva più ardua la comprensione degli oracoli, o quel conturbare i milia multa, ne sciamus, aut ne quis malus invidere possit di Catullo nella sua aritmetica dei baci.

E’ un comporre a schede, come sostiene Canfora (non Pereira), scrivevano Tucidide e Platone.

E a cento anni dal Manifesto dei futuristi, mi sembra che questo scrivere abbia raggiunto un livello di espressività, di efficacia, che a me piace e non avrei sospettato fosse raggiungibile.

Se non la laetitia, il gaudium certo lo può procurare questa lettura, oltre a molte altre preziose riflessioni. Ed io posso dire di aver conosciuto meglio l’autore, averlo capito di più, e aver insieme ritrovato l’amico di giovinezza che egli è stato.