Ieri sera si è tenuto l'incontro organizzato dal Liceo "Archita" e dalla Associazione Italiana di Cultura Classica per la presentazione del libro di Tommaso Anzoino, LI'.
Relatori: Adolfo Mele e Giancarlo Magno






Di seguito l'intervento del prof. A. Mele

Di Tommaso Anzoino

Impressioni di lettura.

Sono, ero (direbbe Anzoino), un professore di Latino e Greco, un po’ cartesiano, del chiaro e distinto, amo la lettura, e mi sono con curiositas, aspettando il Lector, laetaberis di Apuleio, accinto alla lettura del suo nuovo romanzo: “Lì” appunto.

L’ho letto. Non una volta sola. E’ scorrevole, ma non di immediata comprensione-

In tutto il testo c’è una girandola di dittici, indefiniti, di pronomi, di tempi, un succedersi in libertà, almeno apparente, di associazioni di idee, immagini, suggestioni, che alla fine risucchiano il lettore nel loro vortice caleidoscopico, una serie notevole di allegorie, un mondo onirico, cui dà ordine solo la ricorrente insistenza sulle posizioni, fisiche, del narratore (dei narratori). E’ autobiografico? Forse. Ma c’è di tutto. Problemi ambientali, ricordi infantili, ricordi di ogni tipo: sogni, letture, ascolti, viaggi, studi, esperienze, giochi, film visti, persone e animali frequentati; e ci sono note di politica, poche, riflessioni morali, confessioni e suggerimenti di didattica, spunti di comprensione della realtà del mondo dell’infanzia, e soprattutto, secondo me (che al Preside non piace) un senso del mistero, del rinvio ad altro, e una grande nostalgia, che è insieme un’ immanenza del passato nel presente e nel futuro un senso sereno di morte, e progetti di vita e di scrittura nuovi: alcuni esempi degli ultimi: una antologia di Spoon River nuova, una Nova Medea, tragedia di una maga buona, le memorie di un becchino che parla con le bare, una saga familiare con ricerche storiche preliminari.

E tante citazioni, mai gratuite: punteggiano il discorso ma sono più incontri, allusioni, riprese, immedesimazioni, modi di essere, come dice Anzoino ed anche Saramago, rinviano e richiamano tutto un contesto, tutta una sensibilità, valgono una lunga digressione esplicativa: ci sono gli amati italiani, Dante, Foscolo, Leopardi, Pascoli, gli Americani del Nord e i suoi cari ed amati latinoamericani, i greci, tra cui su tutti Leonida di Taranto, i latini, e Agostino e i neogreci, Kavafis e i suoi barbari fra gli altri e gli Italiani recenti Pasolini, Ginzburg, con ricordi autobiografici forse.

Il tutto è narrato in un italiano sorvegliato e veloce, che utilizza diversi registri, dal pacato, predominante, al triviale, a tratti, sempre pronto a nascondersi dietro un pudico velo di autoironia, o in una rapida digressione: uno scritto che ricorda le aeree geometrie del volo di una mosca, che unisce punti inconsueti, o del saltare di una cavalletta, che si ferma quanto e dove crede sia importante: in ciò ricorda Seneca e la sua prosa suggestiva e a strappi.

Ma forse c’è anche il vento che scombinava le foglie nell’antro della Sibilla e rendeva più ardua la comprensione degli oracoli, o quel conturbare i milia multa, ne sciamus, aut ne quis malus invidere possit di Catullo nella sua aritmetica dei baci.

E’ un comporre a schede, come sostiene Canfora (non Pereira), scrivevano Tucidide e Platone.

E a cento anni dal Manifesto dei futuristi, mi sembra che questo scrivere abbia raggiunto un livello di espressività, di efficacia, che a me piace e non avrei sospettato fosse raggiungibile.

Se non la laetitia, il gaudium certo lo può procurare questa lettura, oltre a molte altre preziose riflessioni. Ed io posso dire di aver conosciuto meglio l’autore, averlo capito di più, e aver insieme ritrovato l’amico di giovinezza che egli è stato.

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